I Fratelli Cervi – Commemorazione di Piero Calamandrei

SETTE FRATELLI E UN PADRE (Il 17 gennaio 1954, al teatro Eliseo di Roma, per commemorare il decimo anniversario della fucilazione dei sette fratelli Cervi avvenuta a Reggio Emilia il 28 novembre 1943, fu offerta al padre loro, quasi ottantenne, Alcide Cervi, una medaglia d’oro, opera dello scultore Mazzacurati, che reca da una parte il suo ritratto e dall’altra la raffigurazione simbolica di un tronco di quercia, dietro il quale, tra i rami spezzati, si vedono brillare in cielo le sette stelle dell’Orsa. Prima della consegna della medaglia fu pronunziato questo discorso).

Per iniziare degnamente queste celebrazioni decennali della lotta di liberazione, penso che nessun fatto avrebbe potuto essere scelto più significativo di quello dei fratelli Cervi; anzi della famiglia Cervi.

Questo fatto, meglio di ogni altro, riassume in sé gli aspetti più umani, più naturali e più semplici della Resistenza, e insieme i suoi aspetti più puri e spirituali, e direi perfino più celestiali: questa famiglia patriarcale di agricoltori emiliani, composta del padre contadino e di sette figli contadini, la quale, subito dopo l’armistizio, nell’ora delle generali perplessità, si trova tutta unita e concorde fino dal primo giorno, senza un attimo di esitazione, dalla parte della libertà e della riscossa, dando la impressione, più che di un gruppo di uomini tenuti stretti da un comune senso di solidarietà, di una perfetta fusione di volontà, da cui nasce una ripartizione di compiti coordinati da una coscienza unica, e il senso di un’unica responsabilità, quale non può trovarsi che in una persona sola.

Colla stessa naturale concordia con cui fino a ieri avevano coltivato i loro campi, colla stessa pacata e consapevole unanimità, senza iattanza e senza turbamento, la famiglia tutta unita va incontro alla morte: e quando, dopo l’esterminio dei sette figli, il vecchio Cide torna solo alla terra, unico uomo settantenne rimasto colle donne e coi bambini, ecco che in lui è ancora presente la famiglia, come se i sette figli lasciandolo avessero moltiplicato per sette le sue forze, come se avessero restituito a questo vecchio, insieme col dolore, la forza giovanile ricevuta da lui.

La tempra di questa famiglia è tutta nella frase detta da Cide: «Uno era come dire sette, sette era come dire uno». Come dire uno. Quest’uno, il babbo, il nonno, il patriarca, il ceppo, è qui: in mezzo a noi. E’ come dire che qui in mezzo a noi sono presenti, se c’è lui, i sette figli: le sette medaglie d’argento assegnate alla memoria dei sette figli sono fuse in questa medaglia d’oro destinata a lui. Se c’è lui, c’è con lui tutta la famiglia: ed è proprio questa famiglia partigiana che noi oggi qui onoriamo viva e presente. Gli assassini hanno potuto trucidare i sette fratelli, ma la famiglia non sono riusciti a distruggerla: il ceppo era di razza solida, le radici erano ben fonde nella terra; la famiglia è stata più forte di loro.

Il fatto della famiglia Cervi ha, nella sua semplice realtà, tutti gli elementi per diventare leggenda. La nostra storia anche recente conosce coppie gloriose di fratelli caduti insieme, per la libertà: i fratelli Bandiera, i fratelli Rosselli. Ma il sacrificio di sette fratelli caduti nello stesso istante per la stessa causa, nella nostra storia non c’era ancora: forse non c’è nella storia di nessun popolo. Per ritrovar qualcosa che somigli a questo sterminio familiare, bisogna risalire ai miti della tragedia greca, ai fantasmi biblici od omerici; ai figli di Niobe, ai sette Maccabei, ai sette fratelli di Andromaca.

Ma i fratelli Cervi non sono poesia: sono storia, sono la nostra storia. E prima che la loro storia sfumi e si trasfiguri nei cieli dell’epopea, come la narreranno i nipoti dei nipoti, rievochiamola ancora qui, tra noi, nella sua nuda realtà; consoliamoci, noi che l’abbiamo vista coi nostri occhi, di appartenere ad un popolo che sa trovare ancora, nella sua semplice bontà umana, questa verità più alta e più schietta d’ogni poesia.

Forse c’è qualcuno che preferirebbe lasciar da parte queste rievocazioni, qualcuno al quale le ombre dei fratelli Cervi fanno paura. Ma non ombre, – stelle, come li simboleggia la medaglia: c’è gente a cui queste stelle fanno paura; perché sono stelle che segnano, in cielo, le vie dell’avvenire. Preferirebbero non sentirne più parlare. Dicono: «Non rievochiamo gli orrori della guerra civile: gli uni valevano gli altri. La storia tutto spiega, tutto livella. Pacificazione, perdono, oblio: non parliamone più».

Respingiamo questi ipocriti predicatori di insidiosa indulgenza. Il perdono non si nega ai pentiti; ma occorre il pentimento, l’umiltà del pentimento. Quando gli autori di quelle catastrofi non solo tornano indisturbati in libertà, ma invece di starsene in disparte cauti e discreti osano riprendere l’antica tracotanza per gettar fango sulla guerra partigiana, allora noi abbiamo il dovere di rievocare qui i nostri morti, e di rinnovare qui, dopo dieci anni, il giuramento di non tradirli. E’ vero che la storia insegna come il progresso umano si svolga attraverso continui urti di forze contrapposte, e spiega quali furono in quella dialettica i moventi degli uni e degli altri. Ma non rinuncia a giudicare da che parte furono i valori umani e sociali, e da che parte furono gli istinti bestiali della cieca barbarie. La storia è fatta di una serie continua di scelte: anche l’Italia, dieci anni fa, fece una scelta. Tra la libertà e la servitù, tra il privilegio e la giustizia, tra l’umanità e la ferocia, il popolo italiano fece la sua scelta; e questa si chiamò Resistenza. Questa è ancora la nostra scelta, questa sarà la scelta del nostro avvenire.

Da una parte i fratelli Cervi, da quell’altra i loro assassini.

Noi siamo dalla parte dei fratelli Cervi. Raccontiamo dunque, nella sua semplice verità, la storia dei fratelli Cervi: non c’è bisogno di abbellirla. I fatti parlano da sé.

Quando, nel settembre 1943, la Resistenza cominciò, la famiglia Cervi, nella grande masseria di Praticello, fra Campégine e Gattàtico, vicino a Reggio Emilia, era composta di ventitré persone.

Il padre Alcide Cervi e la madre Genoveffa Cocconi; sette figli, di cui il più grande aveva quarantadue anni e il più piccolo ventidue. Per ordine di età, cominciando dal più grande, i nomi erano questi: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore.

Quattro di questi fratelli erano ammogliati; c’erano, intorno al padre Alcide, anche queste quattro nuore: e dieci nipoti, alcuni ancora in fasce; e la moglie di Gelindo aspettava l’undicesimo.

I Cervi erano venuti in affitto in quel podere nel 1934: allora la famiglia era povera e il podere malamente coltivato. Ma in dieci anni quelle terre erano state trasformate: livellati i campi, regolate le irrigazioni, ingrassate le pasture: i capi di bestiame, da quattro che erano all’inizio, erano saliti, dopo dieci anni, a una cinquantina. Un miracolo, dovuto alle braccia del padre e dei sette figli; ma, più che alle braccia, dovuto alla volontà direttrice e organizzatrice del padre, alla intelligenza e alla sete d’istruzione dei figli.

Quello che più commuove oggi chi va, come io sono andato tre giorni fa, a visitare quel grande casamento patriarcale in mezzo alla pianura alberata, è il ritrovare, tra gli oggetti cari a quei morti che i superstiti riuscirono a raccogliere tra i resti dell’incendio e del saccheggio fascista, una piccola collezione di libri sgualciti e spiegazzati, come furono dissepolti dalle macerie. E’ ciò che resta di una assai più ricca biblioteca che questi contadini avevano messa insieme da sé, in casa loro: perché la sera, quando tornavano dal lavoro, volevano mettersi a leggere per imparare. Accanto ai libri di storia e di cultura generale (tra i quali ancora si vedono con meraviglia romanzi di London e di Dostoiewski, e numeri di riviste politiche come le «Relazioni Internazionali» o la «Riforma Sociale» di Luigi Einaudi) c’erano libri di tecnica agraria: ancora rimangono due manuali di apicultura, che era la specialità di Ferdinando. Questi giovani, sotto la saggia guida del padre, erano, anche in agricoltura, innovatori: studiavano le nuove tecniche moderne, i dissodamenti meccanici, le stalle razionali, l’enologia, le irrigazioni. Mentre di solito lo studio allontana dalla terra i figli dei contadini e li porta verso la città, essi cercavano nei libri nuove ragioni di attaccamento alla terra. Quasi sempre lo spirito dei contadini si mantiene, anche nella tecnica, conservatore e fedele alle pratiche tradizionali; ma la famiglia Cervi era, anche nei metodi di lavoro e nella scelta degli strumenti, all’avanguardia: i vicini guardavano con meraviglia questi matti che per coltivar la terra sentivano il bisogno di studiare la sera sui libri; ma intanto i campi dei «matti» si trasformavano di anno in anno, e diventavano a poco a poco il modello di tutta la zona. Ognuno dei sette figli aveva in questa comunità familiare la sua specialità. Me lo spiegava anche tre giorni fa il padre Alcide: ciascuno aveva il suo incarico: uno ai campi, uno alle stalle, uno all’apicoltura, uno alla cantina, uno ai mercati. Ognuno disponeva nei limiti della sua competenza, ma quando c’erano affari importanti, deliberavano tutti insieme: e poi il padre dava il benestare. Questa comunità dei Cervi non somigliava a una monarchia; era piuttosto una repubblica democratica, presidenziale o meglio patriarcale, con sette ministri e il padre che aveva il potere esecutivo. Le deliberazioni, per diventare esecutive, avevan bisogno del visto del padre Cervi, di «babbo Cide». Anche oggi l’ordinamento resta lo stesso: i figli sono scomparsi, ma ormai al loro posto di lavoro già subentrano i nipoti più grandi. Il potere esecutivo spetta ancora a Cide, ma da dieci anni il titolo di «babbo Cide» non è più adatto per lui: ha assunto quello, più mesto e più grave, di «nonno Cide». La sua presenza ha colmato il vuoto tra le generazioni; scomparsi i figli, egli ha retto sulle sue spalle, in attesa che i nipoti diventassero uomini, tutto il governo della comunità.

Nella storia di questa comunità familiare di contadini istruiti e innovatori c’è un episodio che ha il valore di un simbolo.

Quando, dopo molti anni di accanita fatica di braccia, la famiglia Cervi poté finalmente permettersi il lusso di acquistare un trattore, Aldo andò a prenderlo in consegna a Reggio: e sulla strada che porta a Campégine i vicini lo videro tornare trionfante, al volante della macchina nuova, sulla quale era stato issato, come una bandiera internazionale, un gran mappamondo. Aldo di tutti i fratelli era il più istruito e il più consapevole di cose politiche. Da soldato era stato condannato a tre anni di prigione, per avere obbedito troppo fedelmente alla consegna: era di sentinella a una polveriera e aveva fatto fuoco contro un’ombra che non aveva risposto al «chi va là»: quell’ombra era d’un tenente colonnello che restò ferito a un dito e lo mandò sotto processo. A Gaeta, in prigione, Aldo trovò nei compagni di prigionia chi arricchì la sua coscienza politica: e quando tornò, reduce, come è stato detto, dall’«Università del carcere», egli fu in grado di fare scuola ai fratelli.

Ed eccolo ora, sulla strada di Campégine, che guida il trattore per dissodare la terra, ma porta anche il mappamondo per allargar gli orizzonti delle coscienze. Questo mappamondo è stato, per fortuna, uno degli oggetti scampati dal saccheggio fascista. Quella notte lo avevano portato nella casa di un vicino che aveva la radio, per seguir sulla carta geografica i comunicati. Ora è lì, questo mappamondo ancor nuovo e lustro, conservato al centro di questo piccolo museo familiare.

Me li immagino allora, i sette fratelli, quando il mappamondo fu arrivato, intenti tutti insieme, nelle lunghe serate invernali, a studiarlo sotto la guida di Aldo. Oceani e continenti Aldo indicava col dito: «Questo è un popolo: qui sono terre ed uomini che le lavorano. Questa riga è un confine, al di là del confine ci sono altre terre e altri uomini che le lavorano; e al di là di altri confini ancora altre terre e altri lavoratori; e così sempre uguale, finché, facendo il giro del mondo, si torna al punto di partenza… Perché, allora, i confini, perché le guerre? Perché tutti gli uomini che lavorano non potrebbero mettersi d’accordo, e lavorare in pace, se uguale è il loro destino?» Così i fratelli discutevano pensosi intorno al mappamondo, al tepore della grande stalla: agricoltura, politica e pace, era la stessa cosa. Ma di fuori intanto c’era il fascismo e la guerra; fuori c’era il terrore e lo sterminio.

Uomini di questa tempra, non potevano essere rassegnati al fascismo: e già prima del 25 luglio il padre Cide aveva avuto persecuzioni e perquisizioni, perché si era rifiutato di lasciar depredare il suo grano dalle ruberie dei gerarchi fascisti e aveva preferito di distribuirlo da sé agli affamati. Ma quando venne il 25 luglio, il padre disse ai figli: «Nessuna vendetta, ora che c’è la libertà»: e dette due quintali di fior di farina e venticinque chili di burro per offrire pasta asciutta a tutto il paese.

Poi venne l‘8 settembre: i giorni dei dubbi, delle viltà, delle perplessità. Ma non per i Cervi: che seppero subito, fin dal primo giorno, da che parte era il nemico. Fin dalla fine del settembre, essi di loro iniziativa avevano organizzato, ancor isolati da ogni collegamento, le prime azioni di squadre in pianura, anticipando di molti mesi ciò che solo più tardi poté essere attuato da più vaste formazioni. Anche nelle vicine montagne la Resistenza partì dai Cervi: capeggiati da Aldo, portarono rapidamente a compimento sorprese nella zona di Monte Ventasso e di Toano, per disarmare i presidii fascisti e procurarsi armi per le prossime prove.

Ma in quel primo periodo, nell’ottobre e nel novembre, l’attività clandestina di tutta la famiglia Cervi era consistita soprattutto nel dare rifugio e ristoro ai prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento, che erravano per le campagne avviandosi verso il Sud.

E fu questa la imputazione che li portò alla morte: perché fu proprio questo passaggio di fuggiaschi che attirò sulla casa di Campégine l’attenzione delle spie fasciste.

Alle prime luci del 25 novembre, mentre tutta la famiglia era raccolta in casa, e nel fienile e nelle stalle erano nascosti sei prigionieri stranieri e un ribelle italiano, una colonna di autocarri fascisti poté avvicinarsi protetta dalla foschia dell’alba piovigginosa: la casa fu circondata: era troppo tardi per mettersi in salvo. Da lontano fu intimata la resa. «Cervi, arrendetevi!»: nessuna voce venne dal casolare asserragliato. Allora gli assedianti cominciarono a sparare, tenendosi prudentemente a distanza: gli assediati risposero facendo fuoco dalle finestre. Gli uomini, dentro, si erano distribuiti alla difesa dietro le imposte socchiuse, adoprate come feritoie: le donne e i bambini stavano raccolti nel corridoio e nelle stalle interne, dove non potevano arrivare i colpi. Dopo due ore i fascisti, non osando attaccare di fronte, girarono dietro la casa e dettero fuoco al fienile, che ne costituiva un’ala. Quando si accorsero del fuoco, gli uomini tennero consiglio; c’erano dentro cinque donne e dieci bambini: «Brucia, disse Aldo, non c’è più niente da fare». Furono presi gli ultimi accordi. Disse Aldo, che in quei momenti era il capo: «Se ci tortureranno, resta inteso: io dirò che sono il responsabile di tutto; che ho organizzato tutto io. Solo Gelindo potrà dire, se sarà necessario, che ne sapeva qualcosa. Ma gli altri ignoravano tutto. Bisogna che almeno cinque restino vivi col padre. Rimane inteso». E poi, mentre le fiamme crepitavano, uscirono all’aperto ad uno ad uno, mani in alto, il vecchio Cide in testa.

Furono caricati sugli autocarri e portati a Reggio. Le donne e i bambini sfilarono tra i mitra puntati, e furono accompagnati in un casolare vicino. Quando il podere fu vuoto, la banda fascista si abbandonò al grasso saccheggio.

E’ istruttivo rileggere sul giornale fascista di Reggio Emilia «Il Solco fascista», il racconto dell’episodio:

«Da qualche tempo la polizia militare era al corrente della esistenza in provincia di prigionieri di guerra che si spostavano da un luogo all’altro per brevi soste, per non lasciare tracce… Da qualche giorno però i fuggiaschi erano vigilati dagli organi della polizia militare che aveva in precedenza individuato il loro rifugio in un fabbricato colonico tenuto in affitto dalla famiglia Cervi, composta del padre e da sette figli, parte dei quali ammogliati. Nel fienile avevano trovato alloggio, consenziente la stessa famiglia Cervi, gli anzidetti prigionieri, di cui un russo, due sudafricani, un francese degaullista, un irlandese, nonché un rinnegato italiano. All’alba del giorno 25 un reparto di polizia militare circondava la casa e agli occupanti intimava la resa…»

Dunque, al momento in cui furono arrestati, la più grave, anzi la sola, imputazione che i fascisti facevano ai Cervi era quella di aver dato asilo ai prigionieri. I sei prigionieri arrestati furono consegnati ai tedeschi: i Cervi, e il «rinnegato» Quarto Camurri, furono portati alla caserma dei Servi, dove li interrogarono. Com’era convenuto, Aldo e Gelindo presero su di sé tutta la colpa: gli altri negarono tutto. Dopo l’interrogatorio li trasferirono tutti e otto, padre e figli, alle carceri di San Tommaso, in attesa, si diceva, del processo.

L’attesa durò un mese. Ma il 27 dicembre, verso le sette di sera, fu ucciso a Bagnolo in Piano, nelle campagne di Reggio, il segretario fascista di quel Comune. Immediatamente le autorità fasciste di Reggio, tra le quali il prefetto e il federale, si recarono a Bagnolo, e vi rimasero in conciliaboli fino all’una dopo la mezzanotte: riuniti coi fascisti locali, fu decisa la immediata fucilazione dei fratelli Cervi, che in quel momento dormivano ignari nelle carceri di San Tommaso. Alle quattro del mattino la prefettura consegnò al «Solco fascista» questo comunicato che fu pubblicato sul giornale del 28 dicembre: «“Il segretario comunale di Bagnolo in Piano vigliaccamente ucciso – Il Tribunale Straordinario condanna a morte otto individui – La sentenza è stata eseguita”.

«Ieri sera alle ore 18 circa nei pressi della stazione ferroviaria di Bagnolo in Piano è stato proditoriamente assassinato il fascista repubblicano Onfiani Vincenzo, Segretario comunale di Bagnolo stesso.

«“La riunione e la sentenza del Tribunale Straordinario”:

«Questa notte si è riunito di urgenza il Tribunale Straordinario il quale ha pronunciato sentenza capitale a carico di otto elementi rei confessi di violenze e aggressioni di carattere comune e politico, di connivenza e favoreggiamento con elementi antinazionali e comunisti, di sovvertimento dell’ordine nazionale condotto con la propaganda e con l’uso delle armi.

«La sentenza è stata eseguita all’alba di oggi 28 dicembre.»

Questo fu il procedimento con cui questo «tribunale» di assassini pronunciò la «sentenza» che condannò i fratelli Cervi; «rei confessi» tutti e sette. Andarono a prenderli all’alba. Dormivano lì, tutti insieme, col padre: ma il padre non lo vollero prendere; ed egli non seppe, fino a che non uscì di prigione, che i suoi figli erano morti. Coi compagni di prigionia (che appresero poco dopo, dalle voci giunte di fuori, la sorte dei sette fratelli, ma per pietà la tennero nascosta al padre) egli parlava di loro con orgoglio paterno, come se fossero ancora vivi. Uno di quei compagni di prigionia ha raccontato più tardi, in un suo libro di ricordi[19], i discorsi che faceva il vecchio Cide rimasto in prigione senza i figli: «Ho sette figli e non ho più alcuna notizia di loro. L’altra mattina, mentre dormivamo insieme, vennero a chiamarci. Dissero: ‘La famiglia Cervi al completo, col capo famiglia in testa’. Ma a me hanno detto: ‘Sei vecchio, torna pure a dormire’. Mi sono vestito e ho risposto: ‘Non sono forse il capo di famiglia?’. Li hanno condotti a Parma: speriamo che facciano presto il processo.»

Così conversava il padre coi suoi compagni di prigionia: e questi lo lasciavano dire e fingevano di annuire; e cambiavano discorso per non mettersi a piangere. Ma quand’egli non li vedeva, si raccontavano, nell’orecchio, i particolari di quella partenza.

«Gli dissero l’altra mattina, quando all’alba li hanno destati, che i figli venivano condotti a Parma. Ma uno di essi mormorò: ‘Ma che Parma: tra mezz’ora non siamo più vivi’, e Antenore disse sorridendo: ‘Mi dispiace se ci fucileranno: non vedete che bel cappotto che ho? L’ho rinnovato da poco’».

Andarono così, tranquilli e consapevoli della loro sorte. Furono fucilati in sette, anzi in otto, perché c’era con loro anche il Camurri: tutti in fila, al muro del Poligono di tiro. Un sacerdote che fu presente alla fucilazione disse che morirono bene, senza paura, ma (disse lui) con cinismo. Cinismo? Sì, perché non si pentirono. Ma di che dovevano pentirsi? Era tranquillità di coscienza. Se non fossero morti, se sul punto di fucilarli li avessero liberati, avrebbero ricominciato il giorno dopo a fare quello che avevano fatto fino allora: a vivere per la libertà, pronti ancora a morire per essa. Il loro segreto, che li tenne così sereni in punto di morte, fu quello spiegato da Cide ai compagni di prigionia quando raccontava gli interrogatorii subìti dai figli subito dopo l’arresto: «I militi hanno detto ai miei figli: ‘Volete il perdono? Mettetevi nella guardia repubblicana’. Risposero: ‘Crederemmo di sporcarci’».

Non vollero sporcarsi: per questo li uccisero. Per questo morirono così sereni: non si erano sporcati. Morivano puliti; senza aver nulla da pentirsi. Forse in Aldo e in Gelindo, quando furono schierati lì tutti e sette, c’era un rammarico: di non esser riusciti a morire soltanto loro due, e a salvare gli altri cinque; gli altri cinque ci volevano per la famiglia, per i campi. Ma forse si rasserenarono pensando che restava il padre.

Di solito, secondo le leggi di natura, quando il padre muore, l’ultima sua consolazione è quella di pensare che lui muore, ma restano i figli. E invece qui no: qui la vicenda fu capovolta. Un istante prima dello sparo, i sette figli si consolavano pensando: «Noi moriamo, ma resta il babbo: e tutto quello che è stato distrutto ci sarà lui a rifarlo».

E il babbo restò lui solo. La notte dell‘8 gennaio le mura della prigione furono infrante da un bombardamento aereo: le guardie carcerarie fuggirono: anche i prigionieri, in quel terrore notturno, si misero in salvo. Anche Cide tornò a casa. Arrivò, camminando per le scorciatoie, al suo podere. Una rovina: un’ala distrutta dall’incendio, e quel che restava delle altre stanze, vuote affumicate devastate. Allora soltanto seppe la verità. Quelle quatto nuore piangenti in gruppo erano quattro vedove: quei dieci ragazzi aggrappati a loro, i più grandicelli appena di una diecina d’anni, erano dieci orfani: e un altro orfano stava per nascere, che non avrebbe mai conosciuto il suo babbo. Il solo uomo, in quello scheletro di casa, era lui: e aveva settant’anni.

Disse alla moglie:«Non c’è tempo da piangere. Bisogna continuare. Dopo un raccolto, ne viene un altro». E si rimise al lavoro. Così i vicini lo rividero ancora curvo alla fatica dei campi: ma intorno, ad aiutarlo, aveva solo donne e bambini; e la sera, a capo di quella grande tavola, c’era ancora lui: ma intorno c’erano soltanto donne e bambini. I sette figli erano diventati sette ritratti, appesi lì, nella loro cornice, su quella parete.

Mi sono fermato a lungo dinanzi a quella parete, a contemplare quelle sette facce aperte e buone, tutte diverse, eppure tutte così familiari. In alcune, forse in quelle dei figli maggiori, prevale Alcide col suo profilo impavido e lo sguardo tagliente ed arguto; ma in altri, specialmente nell’ultimo, Ettore, gli occhi, nella faccia regolare, somigliano a quelli della madre, più pensosi e più grandi. Dicono, chi l’ha conosciuto, che parlava poco: ma le sue rare parole, pacate e sagge, erano vangelo per la famiglia nei momenti difficili. Ora in quella stanza, accanto al ritratto dei figli, c’è anche il suo, con quegli occhi pensosi e grandi; perché anche lei dopo meno di un anno se ne andò in silenzio, portata via dal crepacuore, dietro a loro. Anche di lei bisogna ricordarsi oggi, e sentirla al fianco di babbo Alcide.

Quando si esaltano le glorie della Resistenza, si parla degli uomini che andarono volontari a morire, ma non si parla abbastanza delle donne che restarono a casa ad attenderli: il loro silenzio, il loro muto dolore, l’ansia dietro la finestra socchiusa, l’inutile furtivo aggirarsi in cerca di notizie intorno alla prigione sbarrata, il pianto represso dietro un sorriso per non tradirsi: «Torneranno, non torneranno? Saranno vivi? Li avranno fucilati?».

Ricordiamo oggi questa mamma, Genoveffa Cocconi, che per quei sette figli, dei quali Alcide fu la fortezza, fu la gentilezza e la carità. I padri, quando i figli muoiono, possono avere la forza di riprendere il loro posto: la vita li chiama ancora: le mamme è più difficile. Le mamme chinan la testa, e se ne vanno con loro, colle loro creature, in punta di piedi.

Il 28 dicembre 1943 quella scarica aveva spezzato anche il suo cuore di madre. Dietro questa quercia della medaglia, dietro le sette stelle che brillano sul suo cielo, non ci sfugga che c’è nello sfondo, come un chiarore diffuso, questa dolce luce materna.

Questa è la storia della famiglia Cervi. Ed ora voi capirete perché vi ho detto da principio che in essa c’è come la sintesi delle virtù più preziose della Resistenza.

Vi è prima di tutto, nel fatto di questa famiglia, una espressione esemplare di quella spontaneità popolare che è stata l’aspetto più sorprendente e più commovente della Resistenza. Mentre gli eserciti della monarchia si disfacevano, mentre gli stati maggiori nascondevano le divise gallonate, gli umili, i borghesi, i contadini, sentivano che era venuto il momento di ritrovarsi, di resistere, di provvedere da sé a salvare la libertà e la dignità del proprio paese. Questa fu la miracolosa scoperta della Resistenza: aver ritrovato ciascuno, al centro della propria coscienza individuale, il senso della responsabilità civile del cittadino, e insieme il senso della solidarietà sociale verso tutti gli oppressi.

Aver riscoperto la dignità dell’uomo, e la universale indivisibilità di essa: questa scoperta della indivisibilità della libertà e della pace per cui la lotta di un popolo per la sua liberazione è insieme lotta per la liberazione di tutti i popoli dalla schiavitù del denaro e del terrore, questo sentimento della uguaglianza morale di ogni creatura umana, qualunque sia la sua nazione o la sua religione o il colore della sua pelle, questo è l’apporto più prezioso e più fecondo di cui ci ha arricchito la Resistenza.

L‘8 settembre, quando cominciò spontaneo e non ordinato da alcuno questo accorrere di uomini liberi verso la montagna, verso la «macchia», avvenne qualcosa di misterioso che a ripensarlo oggi sembra un miracolo: di cui si stenta, oggi, a trovare la spiegazione umana. Nessuno aveva ordinato l’adunata: questi uomini accorsero da tutte le parti, e si cercarono e si adunarono da sé. Quando si dice che la guerra partigiana si distingue da tutte le altre guerre perché fu una guerra fatta interamente da volontari, si dice giusto, ma non si dice tutto. Essa fu qualcosa di più: un’adunata spontanea e collettiva: un movimento di popolo, una iniziativa di popolo. Non ci fu l’eroe, l’apostolo, il capo, il suscitatore che gettasse il primo grido, che suonasse il primo squillo: non ci fu un Garibaldi che ordinasse: «Seguitemi». Il fenomeno garibaldino fu un altro: aveva un nome, aveva un condottiero. Qui la chiamata fu anonima, non venne dal di fuori: era la chiamata di una voce diffusa come l’aria che si respira, che si svegliava da sé in ogni cuore, nei più generosi e nei più pigri, un’ispirazione che sussurrava dentro, che comandava dentro: «Se sei un uomo, se hai dignità d’uomo, questa è l’ora!» E fu una sorpresa consolante, una scoperta miracolosa il trovarsi dentro questa voce, questo misterioso tesoro che molti ignoravano di custodire dentro di sé: questo accorgersi che uno stesso avvertimento parlava nello stesso modo al centro di ogni coscienza e che in fondo di ogni cuore c’era questa resurrezione della patria umana, in cui tutti gli uomini liberi si riconoscevano e parlavano la stessa lingua.

Questi uomini, di qualunque fede e di tutti i partiti, dicevano prima di morire tutti la stessa frase: «Muoio per un’idea». Ricordate le ultime parole di Guglielmo Jervis scalfite colla punta di uno spillo sulla copertina di una Bibbia ritrovata vicino al luogo ove fu fucilato?

«“Non piangetemi, non chiamatemi povero. Muoio per aver seguito un’idea…”».

Anche i Cervi morirono per un’idea. «Un’idea». Ma che cos’era questa idea che comandava di dentro, che nello stesso istante si destava in ogni cuore e che per tutti era più forte della vita? Qualcuno ha parlato di «partito», di «religione». Ma perché la sentirono anche gli uomini che fino a quel momento non avevano appartenuto ad alcun partito o ad alcuna chiesa? Qualcuno ha parlato di «anima collettiva»: qualcuno ha parlato di «provvidenza». Forse bisognerebbe parlare di Dio: di questo Dio ignoto che è dentro ciascuno di noi: che parla contemporaneamente in tutte le lingue:

l’Arabo, il Parto, il Siro
in suo sermon l’udì.

Quando considero questo misterioso e miracoloso moto di popolo, questo volontario accorrere di gente umile, fino a quel giorno inerme e pacifica, che in un’improvvisa illuminazione senti che era giunto il momento di darsi alla macchia, di prendere il fucile, di ritrovarsi in montagna per combattere contro il terrore, penso a certi inesplicabili ritmi della vita cosmica, ai segreti comandi celesti che regolano i fenomeni collettivi: come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno: come certe piante subacquee che in tutti i laghi di una regione affiorano nello stesso giorno alla superficie per guardare il cielo primaverile; come le rondini di un continente che lo stesso giorno s’accorgono che è giunta l’ora per mettersi in viaggio.

Era giunta l’ora di resistere: era giunta l’ora di esser uomini: di morire da uomini per vivere da uomini.

E cominciò allora quella guerra partigiana, diversa da tutte le guerre conosciute prima; quella guerra in cui non c’erano più combattenti perché tutti erano combattenti: quella guerra in cui non vi erano più azioni militari perché i gesti della normale vita civile erano guerra, perché ormai la guerra aveva lo stesso volto della civiltà.

Anche per i Cervi la Resistenza ebbe la stessa metodica pacatezza del loro lavoro: del lavoro dei campi. Fu, anch’essa, un’opera giornaliera, per difendere e migliorare la loro terra, come quando l’avevano dissodata, come quando l’avevano livellata col trattore e ripulita dalle erbe maligne.

E qui c’è un secondo carattere da mettere in evidenza nel fatto dei fratelli Cervi: questa spontanea e subitanea partecipazione alla Resistenza dei ceti contadini, che costituì un fatto nuovo nella storia del nostro Risorgimento. Nel Reggiano e nel Modenese i primi nuclei animatori della Resistenza, quelli che dettero la prima spinta, furono contadini: i fratelli Cervi erano contadini: fu la campagna a dare il primo esempio alla città. Mentre il primo Risorgimento italiano fu opera soprattutto dei ceti medi, mentre i moti di rivendicazione sociale ebbero sempre il loro impulso iniziale dagli operai delle fabbriche, il richiamo della Resistenza fu sùbito udito anche dagli uomini delle campagne. La patria – come giustamente è stato scritto[20] – da concetto astratto e lontano, da privilegio delle classi dominanti, stava così discendendo in ogni casolare e in ogni vallata, e sempre più si identificava colla difesa di quella terra, colla libertà e dignità del proprio lavoro, speso tutto per fecondare quelle zolle. Quelle zolle, sudate e seminate, lavoro diventato solco, erano la patria.

E un’altra cosa c’è da ricordare: che per i contadini la Resistenza si presentò da principio come un’opera di carità, di ospitalità, di fratellanza. Giungevano da tutte le parti attraverso le campagne i prigionieri fuggiaschi, inseguiti come selvaggina dalla polizia fascista: arrivavano i giovani ribelli che si rifiutavano di piegarsi al servizio degli invasori. Bussavano alle porte dei casolari. Quelle umili porte si aprivano in silenzio; i fuggiaschi trovavano in ogni catapecchia un pane e un letto.

Obbedivano in questo modo, i contadini, a un’antica tradizione di ospitalità, al dovere di asilo verso il fuggitivo, al sentimento di carità cristiana che ordina di dare alloggio ai pellegrini. Ma obbedivano anche a sentimenti nuovi, che si destavano in loro, di solidarietà internazionale tra tutti i sofferenti, di pacificazione fraterna tra i perseguitati di tutti i paesi e di tutte le lingue. C’erano affissi in ogni villaggio bandi minacciosi: «Chiunque dia rifugio a prigionieri evasi sarà fucilato secondo la legge marziale». Che importa? quando di notte un fuggitivo sparuto e stracciato bussava all’uscio, nessuno pensava alla legge marziale: se aveva fame gli si dava un pane; se era stanco gli si dava un giaciglio; se era ferito, le donne lo curavano. Quando un disperso chiedeva ospitalità, non gli si chiedeva di che paese fosse: l’ospite era sacro. Il povero divideva il suo pane col più povero. Da casa Cervi in meno di due mesi passarono più di ottanta fuggiaschi di varie nazionalità, americani, russi, irlandesi, inglesi, francesi, polacchi, sudafricani; anche disertori tedeschi. Quelli validi, dopo essersi riposati e rifocillati, proseguivano per la montagna, dove i fratelli Cervi provvedevano a indirizzarli verso i passi sicuri; quelli feriti o malati erano ospitati fino a che non erano guariti. Un capitano dell’aviazione americana, ferito alle gambe durante un atterraggio forzato, rimase venti giorni nella loro casa, assistito dalle donne e curato clandestinamente da un medico locale.

Questi furono i misfatti per cui i fratelli Cervi furono fucilati: per aver obbedito a questo umano impulso di solidarietà fraterna verso il dolore, per questo desiderio di pace e di carità verso gli oppressi di tutti i popoli.

Questo è uno dei caratteri più significativi della Resistenza italiana nelle campagne: questa Resistenza nata dalla bontà, dalla umanità del nostro popolo. Gli stranieri lo sanno, lo hanno appreso, quelli che ci sono stati, per loro esperienza. Così in tutta Italia, ovunque sono passati gli orrori della guerra.

In questa prima celebrazione decennale della Resistenza, bisogna gridare ben forte questa verità: bisogna ricordarla agli immemori, vicini e lontani. Una scrittrice inglese, maritata in Italia, la signora Iris Origo, pubblicò nel 1947 a Londra, per i suoi connazionali, un diario scritto in inglese sulla guerra in Val d’Orcia[21], in cui si descrive dal vero quale fu, anche in quelle terre senesi ove ella si trovava in una villa quando vi passò la guerra, la naturale generosità dei contadini verso i prigionieri alleati: «Qui c’è un uomo, e ce ne sono centinaia come lui, che ha corso il rischio di esser fucilato, ed ha spartito il mangiare della sua famiglia fino all’ultimo boccone, e ha ospitato vestito protetto quattro stranieri per più di tre mesi e che continua a farlo, pur essendo consapevole di tutti i rischi che corre. Che cosa è questo, se non coraggio e lealtà?».

Che cosa è – diciamo noi – questo popolo italiano, capace di compiere con tanta spontaneità gesti così fraterni, se non un popolo di gente sensibile e civile, che a lungo andare non si doma col terrore e non si compra col denaro, ma che, quando un ideale di solidarietà umana lo commuove, è pronto a dare risolutamente, senza ostentazione di eroismo, come fecero i fratelli Cervi, tutto il suo sangue per la causa comune?

Io penso che quando all’estero si dipinge il nostro paese come se fosse alla vigilia di sovvertimenti e di convulsioni rivoluzionarie, i governi stranieri agirebbero molto più saggiamente se, per sapere la verità sulle cose d’Italia, si rivolgessero per informazioni, invece che ai loro diplomatici che frequentano i salotti dei ricchi, a quei loro stessi concittadini che dieci anni fa fecero la guerra qui, e che, sfuggiti alla prigionia tedesca, trovarono scampo nelle campagne e conobbero, in queste case disadorne ma ospitali, il cuore dei poveri. Questi sarebbero, meglio degli ambasciatori, i testimoni che contano per saper che cosa chiede e che cosa attende il popolo italiano: nient’altro che lavorare in pace, per opere di pace, nei suoi campi e nelle sue officine; e creare da sé il proprio destino: e costruire da sé, giorno per giorno, la propria libertà e la propria giustizia.

In quei giorni che babbo Cervi passò nella prigione di San Tommaso, prima di sapere che i suoi sette figli erano morti, egli disse, in quel suo linguaggio duro di contadino, parole solenni come una profezia.

«Cervi s’alzò e cominciò a passeggiare. Ogni tanto agitava il suo grosso braccio di contadino, o si fregava un fianco quasi che lo tormentasse una maglia di lana. Parlava. I suoi erano modesti pensieri. Ad un tratto disse: – Noi siamo così. Amiamo la libertà.

«Ma con un tale vigore aveva parlato che ci parve avesse espresso un lungo e persuasivo pensiero. Si fermò presso di noi.

«- I miei sette figli – dichiarò – sono forti contadini: non temono di tribolare, e se, consegnati ai tedeschi, verranno portati in Polonia, lavoreranno senza morire: sono certo che torneranno.

«Dopo un momento d’incertezza, continuò con vigore:

«- Perché vi dico che presto questi muri cadranno, e i tormentatori del popolo prenderanno il posto dei tormentati, e noi torneremo alle nostre case e col lavoro rifaremo tutto quello che ci hanno distrutto…»[22].

Di lì a poco la profezia cominciò ad avverarsi. La notte dell‘8 gennaio le mura della prigione si sbriciolarono sotto le bombe che cadevano dal cielo: e i carcerati si trovarono anch’essi, nella notte, confusi colla folla fuggente che cercava scampo nelle campagne. Tra quei fuggiaschi correvano voci d’Apocalisse: «I muri della prigione sono caduti in polvere… Castigo di Dio… la città sarà bombardata sette volte per vendicare i sette fratelli Cervi… Le bombe hanno scoperto le loro tombe…». Era vero. Il bombardamento aveva rimosso la poca terra con cui gli assassini li avevano ricoperti in fretta dopo la fucilazione. I loro sette volti, così diversi e pur così familiari, erano riapparsi.

In quel cataclisma di crolli e di incendi correva come una ventata vendicatrice l’antico squillo:

Si scopron le tombe,

si levano i morti

Le tombe dei Cervi si erano scoperte. I fratelli Cervi si erano levati: tornavano ai loro campi. Tutti e sette, dietro il loro babbo: tutti e sette, invisibili ma presenti; dietro di lui, dentro di lui, riassunti e ricomposti in lui. «Perché vi dico che presto questi muri cadranno, e i tormentatori del popolo prenderanno il posto dei tormentati, e noi ritorneremo alle nostre case e col lavoro rifaremo tutto quello che ci hanno distrutto».

Sì, babbo Cervi, la profezia continuerà ad avverarsi.

Altre mura cadranno, fatalmente, senza bisogno di spargere altro sangue: cadranno le mura della miseria, cadranno le mura del privilegio, cadranno le mura dell’ignoranza, cadranno le mura dei nazionalismi, cadranno le mura dei fortilizi, cadranno le mura della guerra: «e noi ritorneremo alle nostre case e col lavoro rifaremo tutto quello che ci hanno distrutto».

Salute, Alcide Cervi! I nipoti sono già uomini: il vuoto di una generazione è colmato. Sui rami troncati dal vecchio ceppo spuntan le foglie nuove.

In gamba, nonno Cide, per altri cento anni ancora! Con uomini come te il mondo si salva: con uomini come te un nuovo mondo si crea. Non bisogna piangere i tuoi figliuoli: felici loro che hanno lavorato fino all’ultimo istante per creare un mondo migliore.

Italiani della Resistenza! Onoriamo, ma non compiangiamo il padre di questi figli. Se qualcuno si deve compiangere, compiangiamo i padri dei loro fucilatori.

Piero Calamandrei
teatro Eliseo di Roma 17 gennaio 1954