Dal 25 luglio all’8 settembre quelli che furono i primi passi della politica e dei partiti antifascisti verso un impegno che sarebbe diventato unitario con la nascita del CLN

Il 25 Luglio 1943, con il colpo di Stato all’interno del Gran Consiglio del fascismo con la destituzione e il successivo arresto di Mussolini, rappresenta il momento di svolta di una vicenda politica che oltre alla guerra, aveva portato fame e miseria. Durante il ventennio, tuttavia, l’opposizione al regime non ha mai cessato di esistere, anche se in molti dovettero ripiegare a un esilio per poter continuare a fare azione politica contro il regime. Altri subirono violenze e morte altri ancora, carcere e confino.
Con l’avvicinarsi della crisi politica del 25 luglio un gruppo di senatori cattolici e liberali del periodo precedente al fascismo, mostrarono una certa attività a Roma, per non farsi cogliere impreparati sulle evoluzioni del post-25 luglio. Nel Nord e nelle principali città industriali Comunisti e Socialisti furono tra i principali organizzatori degli scioperi che sotto le parole d’ordine di rivendicazioni salariali di fatto organizzavano scioperi politici contro la guerra, per la pace e contro il fascismo
tratto dalla “Storia della Resistenza” di F. Frassati e P. Secchia, ecco il racconto di quei 45 giorni fino all’8 settembre 1943 con quella che per molti diventerà “la scelta” della Resistenza.
Loris

gruppo di antifascisti condannati a Ponza. A destra si riconoscono Ferruccio Parri e Carlo Rosselli

Il comitato nazionale delle correnti antifasciste
“Nella mattinata del 25 luglio, quando ancora Badoglio non aveva ricevuto l’incarico ufficiale di formare il nuovo governo, il gruppo dei senatori si riunì in casa di Bergamini. A Bonomi, Casati e Della Torretta si aggiunsero quasi subito Ruini ed i democristiani De Gasperi, Gronchi e Spataro. La discussione, che proseguì per tutta la giornata, finì per accentrarsi su una questione; se conveniva o meno accogliere un eventuale invito di Badoglio, la cui nomina era data per scontata, ad entrare nel governo.

Bonomi si pronunciò per l’astensione: a sostegno della sua tesi intervenne
De Gasperi con un’argomentazione che convinse tutti i presenti. Secondo l’esponente cattolico, «le partite» erano due: l’abbattimento di Mussolini e del fascismo e la conclusione di un accordo con gli anglo-americani.
La prima partita era attiva, e coloro che l’avessero liquidata si sarebbero procurati un titolo di benemerenza di fronte al paese; ma ormai era tardi, essendosi il re e Badoglio già assunti quel compito. Restava la partita passiva, la conclusione di un accordo armistiziale, un’opera certamente ardua che avrebbe comportato responsabilità penose per i suoi negoziatori.
Meglio lasciare che Badoglio e il re si cavassero d’impaccio da soli.
«Si decide pertanto, – scrisse Bonomi nel suo Diario, – di rimanere in attenta osservazione e di non assumere alcuna corresponsabilità. In sostanza è il Gran Consiglio che ha abbattuto Mussolini: scelga il re la persona più adatta per rimuovere un cadavere ingombrante».

Il re, seppure per ragioni diverse, era della medesima opinione: all’incirca alla stessa ora respingeva la proposta di Badoglio d’immettere nel nuovo governo il gruppo dei senatori.

Alla riunione romana i rappresentanti dei partiti di sinistra non erano stati invitati. A Milano invece il Comitato delle opposizioni si riunì al completo e giunse perciò a conclusioni assai più impegnative.

Antonio Gramsci, il capo dei comunisti italiani, che per primo indicò la via dell’unità nella lotta antifascista. Arrestato l’8 novembre 1926, fu inviato ad Ustica (dove è ritratto nella fotografia con altri confinati) per scontare cinque anni di confino. Nel 1928 fu condannato dal dal tribunale fascista a più di venti anni di reclusione e trasferito al carcere di Turi. La sua morte, avvenuta il 27 aprile 1937 e provocata dalla lunga detenzione, suscitò una ondata di profonda commozione e di sdegno in tutto il mondo.

Il mattino del 26 luglio, nello studio dell’avvocato Tino, in via Monte di Pietà, convennero i liberali Tommaso Gallarati Scotti e Stefano Jacini, i democristiani Piero Malvestiti e Gioacchino Malavasi, Antonio Greppi del partito socialista italiano, Lelio Basso e Domenico Viotto per il movimento d’unità proletaria, Giorgio Amendola e Giovanni Grilli per il partito comunista. Il partito d’azione, oltre che da Adolfo Tino, era rappresentato da Riccardo Lombardi.

I liberali, sostenuti con qualche riserva dai cattolici, erano propensi all’adozione di un atteggiamento di fiduciosa attesa nei confronti del nuovo governo. I comunisti affermarono la necessità di promuovere un’azione immediata, incoraggiando la continuazione degli scioperi in corso, per trasformare le spontanee manifestazioni di esultanza popolare in un movimento organizzato di lotta con rivendicazioni precise: armistizio, scioglimento delle organizzazioni fasciste, libertà di stampa e di riunione, liberazione dei detenuti politici, sostituzione del ministero Badoglio con un governo di unità nazionale, rappresentativo di tutte le correnti antifasciste.

Tra queste due posizioni stava quella del partito d’azione, condivisa dai socialisti: gli azionisti, mentre non concordavano sull’urgenza di un’azione immediata per la formazione di un governo democratico ed unitario, avanzavano pregiudizialmente il problema istituzionale, subordinando alla sua soluzione in senso repubblicano ogni altra questione.

Alla fine, anche perché le manifestazioni popolari proseguivano impetuose e la parola d’ordine « pace e libertà », lanciata quel mattino dall’edizione straordinaria dell’Unità, aveva raccolto un larghissimo consenso tra le masse in agitazione, il Comitato delle opposizioni fece proprie le istanze avanzate dai comunisti, assumendole come piattaforma della solidale azione dei partiti antifascisti e divulgandole in un appello rivolto agli italiani per invitarli « a non limitarsi a manifestazioni di giubilo ma, consci della gravità dell’ora, ad organizzarsi per far valere la irremovibile volontà che la nuova situazione non sia da alcuno sfruttata per fini reazionari e di salvataggio di interessi che hanno sostenuto il fascismo e sono stati dal fascismo sostenuti ». L’appello terminava ammonendo « tutte le masse lavoratrici, operai, contadini, artigiani, professionisti, studenti, combattenti, a considerarsi in stato permanente d’allarme e di vigilanza per affermare con l’azione la loro incoercibile volontà di pace e di libertà».

Palmiro Togliatti nel 1931. Miracolosamente scampato alla fucilazione a Roma nel 1922, Togliatti diresse. dopo l’arresto di Gramsci, il partito comunista nella lotta contro il fascismo. Durante la guerra di Spagna portò il contributo delle Sue esperienze e della sua preparazione politica in difesa della repubblica spagnola.

Era una posizione profondamente diversa da quella del gruppo romano, che peraltro ne fu influenzato e si scostò, sia pure di poco, dalla linea totalmente rinunciataria adottata in un primo momento. Il 27 luglio giunsero a Roma, inviati dai rispettivi partiti, Giorgio Amendola e Adolfo Tino. Con la loro partecipazione ebbe luogo una nuova riunione alla quale intervennero, oltre agli esponenti democratico-liberali e cattolici, l’azionista Riccardo Bauer ed i socialisti Giuseppe Romita e Olindo Vernocchi. Sorse così anche a Roma un organo veramente unitario, che assunse la denominazione di Comitato nazionale delle correnti antifasciste.

AL termine di lunghe discussioni venne formulato un voto unanime per sollecitare il governo a provvedere allo scioglimento del partito fascista, alla liberazione dei detenuti politici, al ripristino della libertà di stampa ed al riconoscimento del diritto dei partiti antifascisti di ricostituirsi legalmente. Nessun accordo fu invece raggiunto sulle due questioni più urgenti, l’armistizio immediato e la formazione d’un governo d’unità nazionale. Su questi punti il gruppo dei senatori e i dirigenti del partito cattolico mantenevano le loro e continuavano a ritenere «inopportuno» addossarsi anche solo la responsabilità di esercitare pressioni sul governo.

Nella mattinata del 28 luglio Bonomi, come presidente del Comitato delle correnti antifasciste, si recò da Badoglio a presentare le rivendicazioni sulle quali il consenso s’era manifestato unanime: nel medesimo giorno vennero promulgati i decreti di scioglimento del partito fascista e di amnistia per i detenuti I due provvedimenti furono applicati con riserve tali da menomarne gravemente l’efficacia. Si cominciò a liberare i detenuti politici ma con criteri discriminatori: rimasero in carcere o al confino i comunisti, gli anarchici e gli antifascisti sloveni e furono necessarie nuove ed insistenti pressioni per ottenerne la graduale liberazione. Una parte si trovava ancora in stato di detenzione il 9 settembre, all’arrivo dei tedeschi, e finì nei campi di concentramento di Ariano Irpino e Fossoli: alcuni furono inviati a Mauthausen.

A Torino si verificò il caso limite. Alcuni comunisti furono arrestati dopo il 25 luglio; ed il generale Adami Rossi, poiché il 26 gli operai torinesi avevano forzato le porte delle prigioni e liberato i politici, emise il 3 agosto un’ordinanza che intimava agli
« evasi dal carcere giudiziario» di costituirsi entro tre giorni.

Lo scioglimento del partito fascista e delle sue organizzazioni si ridusse a più che una formalità. La milizia venne integrata nell’esercito, mentre l’opera di vigilanza e di repressione nei confronti dei gerarchi fu condotta fiaccamente, tanto che ben pochi furono arrestati per esplicito volere del re, in contrasto con i più rigorosi intendimenti di Badoglio) ed alcuni poterono persino complottare indisturbati con le autorità diplomatiche e militari tedesche.

Molti fascisti vennero richiamati alle armi: questa misura, che avrebbe dovuto essere preclusiva d’ogni loro attività politica sortì l’effetto contrario poiché li mise in condizione di svolgere opera disgregatrice nelle file dell’esercito.

In quanto alla libertà di stampa, la risposta di Badoglio fu completamente negativa. Potevano uscire solo i giornali già esistenti, mantenendo le vecchie testate, con direttori nuovi scelti dai proprietari che naturalmente erano sempre gli stessi: gli organi dei partiti, soppressi dal fascismo, non poterono riprendere le pubblicazioni e dovettero continuare ad uscire clandestini. Anche la ricostituzione ufficiale dei partiti, per espresso divieto del sovrano, non fu permessa.

Nei giorni successivi il Comitato respinse ancora la proposta comunista di agire energicamente per imporre, facendo appello alle masse popolari, un governo d’unità nazionale; il 2 agosto fu però approvato un ordine del giorno che reclamava la cessazione della guerra. Una delegazione del Comitato Io presentò al maresciallo Badoglio che si trincerò – sono le sue parole- « dietro il riserbo impostogli dalla gravità dell’ora e dalla delicatezza della questione ». Assicurò comunque che avrebbe portato a conoscenza del re il voto del Comitato.
Estratto da “Storia della Resistenza di F. Frassati e P. Secchia Vol. 1 – 1965 – Editori Riuniti

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